Carisma, gestione dei beni ed adeguatezza della governance: nuove ed urgenti sfide per gli enti ecclesiastici

di Enrico Sarti

 

Nell’attuale contesto gli enti ecclesiastici devono necessariamente raccogliere le sfide che il nostro tempo pone loro, individuando risposte profetiche così da costituire strumenti attraverso i quali la Chiesa operi davvero per il bene della società.

I mutati bisogni e i diversi contesti sociali e culturali esigono da un lato l’abbandono di modalità operative comode ma non più adeguate e dall’altro un nuovo approccio audace e creativo per “ripensare gli obbiettivi, le strutture, lo stile[1].

Le riflessioni e gli approfondimenti che si impongono coinvolgono aspetti giuridici, economici, organizzativi: tutti dovranno essere affrontati con l’attenzione a leggerli alla luce del Vangelo.

Questo contributo si limiterà alla dimensione giuridica e proporrà alcune considerazioni su tre temi che sono ritenuti strategici: il carisma fondazionale dell’ente ecclesiastico e le conseguenze sulle opere che esso svolge, la natura dei beni ecclesiastici e la loro gestione, l’adeguatezza della governance dell’ente ecclesiastico per attività complesse.

Per enti ecclesiastici qui si intenderanno tutte le persone giuridiche pubbliche della Chiesa quindi sia istituti di vita consacrata e società di vita apostolica che diocesi, parrocchie  oltre ad altri enti a questi  gerarchicamente sottoposti.

Nello studio saranno di volta in volta indicate norme del Codice di Diritto Canonico con la finalità di evidenziare specifiche questioni comuni alla generale categoria degli enti ecclesiastici.

Anche con accenni a soluzioni adottate all’estero, sarà suggerito un percorso graduale che dovrebbe contribuire a una attività più efficace ed efficiente in ordine al compimento della missione.

 

  • Carisma dell’ente ecclesiastico

Costituisce per il Concilio Vaticano II uno dei principi generali per il rinnovamento della vita religiosa la definizione di “patrimonio dell’istituto” che il Codice di diritto canonico identifica ne: “L’intendimento e i progetti dei fondatori, sanciti dalla competente autorità della Chiesa, relativamente alla natura, al fine, allo spirito e all’indole dell’istituto”[2].

Nella sostanza si tratta di un dono fatto alla Chiesa e per la sua missione.

In altri termini, il carisma fondazionale è dato dal patrimonio spirituale di ciascun istituto[3] e costituisce il riferimento di tutte le sue attività, il metro di misura delle scelte strategiche per assicurarne la coerenza con le proprie finalità apostoliche.

Il richiamo non è inutile, considerato il rischio concreto che gli enti ecclesiastici – considerati nella accezione ampia che è stata già precisata in quanto tutti esistono in forza di una volontà fondazionale in ordine a una missione, pur con le dovute differenze di ambito e ampiezza –  smarriscano o mettano in secondo piano il loro carisma, dedicandosi in prevalenza ad attività diverse rispetto a quelle istituzionali di religione e di culto per le quali sono stati costituiti e che legittimano il mantenimento di un senso della loro esistenza nella Chiesa.

Il rapporto con il carisma, quindi, costituisce il parametro per una verifica della coerenza o meno delle opere che l’ente ecclesiastico svolge.

In questo percorso l’ente ecclesiastico è prima di tutto chiamato oggi a verificare se il suo carisma sia ancora adeguato alle necessità apostoliche della Chiesa o se il suo compito sia ormai stato portato a compimento.

Non deve essere esclusa l’eventualità che l’ente ecclesiastico prenda atto della conclusione della propria missione e individui le modalità più opportune per la propria estinzione, prendendo consapevolezza che lo Spirito Santo che lo ha chiamato all’esistenza, ispirando i fondatori, non lo ha necessariamente fatto per l’eternità[4], né vuole un accanimento terapeutico a suo danno.

Se non è questo il caso, è comunque onere dell’ente ecclesiastico adeguare il modo in cui il carisma viene tradotto in atto alle mutate necessità del tempo, compiendo quel discernimento evangelico della realtà[5] che, lungi dall’essere uno sterile eccesso diagnostico, è presupposto per scelte efficaci.

La fedeltà al carisma comporta una revisione delle opere per verificare se ce ne siano alcune non più coerenti e quindi da eliminare, altre da modificare o nuove da costituire[6].

I nuovi bisogni che interpellano l’ente ecclesiastico finiscono, quindi, per obbligarlo a scelte spesso innovative se vuole mantenersi fedele al patrimonio fondazionale.

La pianificazione della gestione delle risorse che ne consegue comporta l’adozione di procedure indispensabili quali bilanci preventivi e consuntivi (predisposti secondo schemi internazionali uniformi e nel rispetto delle comuni regole contabili), budget e strumenti di controllo di gestione.

Quello che appare, tuttavia, ancora più essenziale è la predisposizione di un piano strategico di riferimento a lungo termine coerente con gli obiettivi generali.

Diversamente non può essere elaborato un vero budget previsionale e risulta arduo legare il breve termine (la gestione quotidiana) con il medio termine (l’orizzonte apostolico di attuazione del carisma).

Costituirebbe, infatti, un obiettivo minimo, necessario ma non sufficiente, proporsi soltanto una regolarità strettamente amministrativa invece di ambire a un risultato più pregnante in termini strategici.

L’attenzione al carisma e il suo aggiornamento costituiscono, in definitiva, un presupposto necessario perché l’ente ecclesiastico assicuri la sostenibilità delle proprie opere in primo luogo da un punto di vista spirituale, predisponendo a questo fine gli strumenti più idonei sul piano economico-amministrativo.

 

  • Natura e gestione degli enti ecclesiastici

I beni degli enti ecclesiastici trovano la loro definizione nell’appartenenza a “persone giuridiche pubbliche”[7] e quindi nella relazione con i fini di quest’ultime.

Di conseguenza è nel proprio carisma che gli enti ecclesiastici individueranno il criterio per valutare la necessità e i limiti della dotazione di beni, il diritto a possederli.

Ad esempio, un patrimonio eccessivo e sproporzionato rispetto ai fini dell’ente non ha ragione di esistere, e anzi rischia di compromettere una sana relazione tra strumento e scopo, ponendosi come scopo invece che come strumento.

Può senza dubbio essere prezioso per gli enti ecclesiastici, quindi, determinare quale debba essere il patrimonio (ora considerato come insieme di beni immobili e mobili, diritti e rapporti attivi e passivi) necessario per consentire il raggiungimento dei propri fini.

L’attuale Codice di Diritto Canonico non prevede una definizione esplicita del “patrimonio stabile” dell’ente ecclesiastico, con tutta probabilità intendendo richiamarsi al concetto classico della tradizione canonistica secondo la quale il “patrimonio stabile” è costituito dalla dote permanente ossia da quei beni pervenuti al momento della costituzione dell’ente, oppure oggetto di liberalità con disposizione conseguente del donante o, infine, quelli ad esso destinati dall’organo di amministrazione.

Gli unici richiami nel codice vigente sono, infatti, nelle norme che pongono limiti alla donazioni di beni mobili a fini di pietà o di carità cristiana[8]e all’alienazione di beni il cui valore ecceda la somma fissata dal diritto[9]. In quest’ultima disposizione viene precisato che costituiscono patrimonio stabile quei beni che sono stati oggetto di “legittima assegnazione” alla persona giuridica pubblica.

In realtà non sono molto numerosi gli enti ecclesiastici che hanno specifiche delibere di legittima assegnazione: salvo i beni che hanno costituito la dote fondazionale, non si rinvengono di regola atti di destinazione da parte di autori di liberalità al patrimonio stabile dell’ente ecclesiastico o puntuali disposizioni da parte del suo organo di governo.

Pare invece importante e urgente procedere a questa identificazione del patrimonio stabile, dopo aver valutato le opere che l’ente è chiamato a svolgere in base al proprio carisma.

Individuato secondo il diritto proprio di ogni ente l’organo competente ad assumerla, una specifica decisione dovrebbe stabilire la legittima assegnazione dei beni.

A tale riguardo appaiono molto opportuni i recenti suggerimenti – estendibili senz’altro a tutti gli enti ecclesiastici e non limitati solo agli istituti religiosi – della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica  che propongono l’obbligatorietà dell’introduzione del concetto di patrimonio stabile nelle Costituzioni o in altro atto di diritto proprio dell’Istituto,[10] andando a colmare una lacuna abbastanza evidente nel Codice di Diritto Canonico.

Questa revisione del patrimonio, che dovrebbe anche condurre all’identificazione di un fondo di dotazione – che non può essere intaccato e coincide con il “patrimonio stabile” – distinto da un fondo di gestione – ossia l’ammontare delle risorse che è possibile dedicare alla gestione senza intaccare il patrimonio -, avrebbe più di una conseguenza positiva per gli enti ecclesiastici.

Innanzitutto aiuterebbe a comprendere come il patrimonio si è costituito e compierne una puntuale ricognizione.

Inoltre consentirebbe di valutare quale parte del patrimonio sia effettivamente essenziale per il raggiungimento delle finalità istituzionali.

In questa analisi l’ente ecclesiastico sperimenterebbe che non ci sono criteri predefiniti per definire il patrimonio stabile, in quanto assumono diversa rilevanza sia la natura e la quantità dei beni, sia la dinamica dell’esercizio della propria missione (in espansione o in regressione). Il patrimonio stabile non è, infatti, immodificabile, ma soggetto a trasformazioni, accrescimenti e riduzioni in relazione alla sua finalità.

L’adozione di queste distinzioni riguardo al patrimonio consentirebbe, quindi, agli enti ecclesiastici di rispondere a un’altra sfida che l’attuale contesto pone: comprendere il significato e le finalità dei beni ecclesiastici, mantenere soltanto quelli essenziali e funzionali all’attuazione del proprio carisma, liberarsi di quelli inutili, e con testimonianza evangelica essere a servizio delle tante forme di povertà.

 

  • La governance dell’ente ecclesiastico ed i suoi limiti di adeguatezza per gestire attività complesse. Possibili soluzioni

La struttura della governance dell’ente ecclesiastico come risulta dal Codice di Diritto Canonico nel Titolo II del Libro V trae fondamento dalla potestas regiminis, tanto che, in forza del suo primato di governo, il Romano Pontefice è definito come “supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici”[11].

Il titolare della potestas regiminis, che sia l’Ordinario Diocesano, il parroco o il Superiore di un Istituto di Vita Consacrata, è di norma l’amministratore (unico) dei beni dell’ente ecclesiastico.

E’ peraltro possibile che l’amministrazione venga affidata a diverso organo monocratico – come spesso succede affidando la legale rappresentanza sia canonica che civile o solo civile all’economo – o ad organi collegiali, potendo prevedere in tal senso gli statuti.

Il Codice richiede, inoltre, che ogni persona giuridica abbia il proprio consiglio per gli affari economici che coadiuva l’amministratore nell’adempimento dei propri compiti[12], a norma degli statuti, rinviando a questi la determinazione dei pareri o consensi richiesti per la validità degli atti posti dall’amministratore. In ogni caso si tratta di organo consultivo che non ha potere diretto di amministrazione, ma contribuisce al retto esercizio del potere dell’amministratore.

L’efficienza e l’efficacia nello svolgimento della missione da parte degli enti ecclesiastici incontrano limiti pesanti in questa governance essenziale, probabilmente sufficiente per la gestione delle attività istituzionali dell’ente ecclesiastico (quelle di religione di culto), ma spesso non adeguata ad attività complesse, come quelle educative (in particolare la gestione diretta di collegi e scuole), assistenziali e socio-sanitarie.

Le ragioni di questa inadeguatezza sono diverse.

Innanzitutto la progressiva carenza di religiosi con le competenze per ricoprire il ruolo di amministratore (unico) comporta la necessità di individuare all’esterno soluzioni alternative per non rischiare che realtà complesse si ritrovino affidate a chi per deficit di formazione non ha la capacità tecnica per gestirle.

Inoltre la governance di un ente ecclesiastico non prevede di norma organi distinti secondo le funzioni di indirizzo strategico, di gestione e di controllo: tale distinzione è essenziale nel caso di attività complesse come quelle a cui sopra si è fatto cenno.

Si rende, quindi, necessario individuare percorsi per il superamento (anche graduale e progressivo) di queste deficienze.

La proposta di un passaggio dall’ordinamento monocratico a quello collegiale non solo è in linea con il Codice di Diritto Canonico ma anche – si licet parva componere magnis – con la spinta di Papa Francesco a una maggiore collegialità della Chiesa;  potrebbe, quindi, costituire una interessante applicazione in questa materia della intuizione proposta dal Pontefice come orizzonte comprensivo del  modo di procedere della Chiesa.

Un primo possibile intervento è la predisposizione di uno statuto dell’ente ecclesiastico o la modifica di quello già esistente.

E’ peraltro del tutto legittimo che l’ente ecclesiastico modifichi la propria governance, come riconosce anche il legislatore italiano[13].

Già sono codificate dal diritto proprio di istituti di vita consacrata  opere rette da un consiglio di amministrazione anche a composizione mista di laici e religiosi[14].

Un cambiamento ispirato alla gradualità potrebbe prevedere una fase transitoria nella quale introdurre un consiglio di amministrazione, nominato dall’Ordinario Diocesano o dal Superiore Maggiore, che veda la presenza di membri scelti in base alla competenze specifiche necessarie alla gestione dell’attività, riservando ai presbiteri o  religiosi del consiglio il costante richiamo al carisma.

Al consiglio di amministrazione verrebbe assegnato un potere deliberativo su materie di indirizzo strategico, di ordinaria e straordinaria amministrazione, di approvazione della struttura organizzativa e assunzioni di dipendenti, sull’approvazione di bilancio preventivo e consuntivo e  anche riguardo alla possibilità di conferire deleghe specifiche ad uno o più consiglieri.

Rimarrebbero eventualmente riservate al legale rappresentante alcune decisioni su materie ritenute più delicate, da delimitare comunque nello statuto e richiedendo, comunque, che anche su di esse il consiglio di amministrazione debba fornire il proprio parere, con necessità di esplicita motivazione in caso di decisione in senso opposto.

I controlli e gli obblighi di vigilanza a carico dell’autorità superiore previsti dalla normativa canonica assicurerebbero un’ulteriore tutela sulle questioni più importanti.

Imprescindibile sarebbe poi l’introduzione di un organo di controllo (analogo al collegio sindacale previsto dal diritto italiano per alcune tipologie di società e fondazioni), preferibilmente collegiale e nominato dall’ autorità superiore competente, con compiti di vigilanza sull’osservanza della legge (canonica e civile) e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e anche di controllo contabile.

Questa previsione non costituirebbe una duplicazione dei controlli canonici, perché risponde a finalità diverse, assicurerebbe un effettivo controllo durante l’attività dell’ente e aggiungerebbe elevata professionalità e competenza.

Infine, l’introduzione della certificazione dei bilanci e di forme di audit – come si è proposto di recente[15]– sarebbe garanzia di correttezza economico-amministrativa.

Sempre operando sulla struttura dell’ente ecclesiastico e utilizzando opportunità che l’ordinamento italiano espressamente prevede, dovrebbe essere attentamente valutata la possibilità di costituire rami-ONLUS per quelle attività svolte nei settori indicati dall’art. 10 del Decreto Legislativo 460/1997.

Il regolamento, che è prescritto per la costituzione del ramo-ONLUS, costituirebbe strumento prezioso per distinguere le diverse attività, precisare le varie competenze e funzioni, individuare le diverse responsabilità.

Anche se esistono abusi di tale strumento, una sua adozione rigorosa non può che essere auspicabile e di grande aiuto per gli enti ecclesiastici.

La migliore conclusione del processo intrapreso per individuare lo strumento più adeguato per la gestione di opere complesse da parte di enti ecclesiastici appare, in effetti,  la costituzione di enti distinti ed autonomi (e nel rispetto, ove possibile, del principio “Entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem”, anche nella forma del “ramo” appena ricordata, dove l’ente rimane unico ma esiste una rigida e definita separazione delle attività), dotati di una governance adeguata e in grado di assicurare il rispetto del carisma e una gestione efficace ed efficiente.

 

  • Alcune esperienze concrete (Regno Unito e Italia)

Le esperienze consolidate di realtà ecclesiastiche in paesi esteri possono offrire significative indicazioni.

La mancata previsione di enti ecclesiastici riconosciuti dal diritto civile locale e con un loro particolare status – come invece avviene in Italia – sembra quasi aver provocato altrove soluzioni più appropriate alle necessità delle attività gestite.

Quanto gli ordini religiosi hanno ormai da decenni adottato nel Regno Unito costituisce un interessante esempio, di cui si tracceranno qui gli elementi essenziali, riferendosi a una concreta esperienza nell’ambito della attività educativa svolta da una congregazione religiosa.

Il governo dell’ordine religioso (il Superiore Maggiore, l’economo e alcuni delegati del Superiore Maggiore) hanno costituito un main trust, del cui board sono membri, prevedendo nello statuto le modalità della loro sostituzione al momento della perdita delle cariche che ne legittimano la presenza.

Il trust gestisce due opere complesse (due importanti istituti scolastici).

E’ interessante osservare come il board del trust non si occupi direttamente dell’amministrazione delle opere, ma svolga esclusivamente la funzione di indirizzo strategico generale, nominando la maggioranza dei membri dell’organo di governo (governing body) specifico di ciascun collegio, che è poi integrato da rappresentanti di insegnanti, genitori e autorità locali.

Questo governing body ha funzione di indirizzo specifico per l’istituto scolastico e nomina un headmaster  (riconducibile alla figura del direttore) che ha la responsabilità diretta del collegio, con poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria e con un proprio staff.

Nei confronti del headmaster il governing body  ha principalmente un compito di impulso e sostegno in vista dell’assunzione delle migliori decisioni, oltre a quello di monitoraggio e valutazione.

Le varie e complesse questioni da affrontare hanno reso necessario prevedere diversi “comitati di governo” costituiti da alcuni membri del governing body, dal headmaster e da esperti esterni: questi comitati hanno specifiche deleghe o sono destinatari di specifiche richieste di parere su numerose materie essenziali per l’attività del collegio (a titolo esemplificativo: strategia di gruppo, remunerazione, personale, finanza, disciplina, ammissione e curricula).

Una variante a questa modalità è rappresentata da collegi per i quali il main board non nomina la maggioranza dei membri del governing body, ma mantiene attraverso i membri di sua nomina un potere di veto su materie ritenute strategiche ed essenziali al carisma dell’opera.

Ai fini di questo studio interessa sottolineare come la soluzione appena descritta risponda effettivamente alle sfide sopra illustrate: la tutela del carisma è assicurata dalla presenza nel board di autorevoli membri designati dall’istituto religioso (in maggioranza o con diritto di veto sulle scelte strategiche); la governance dell’opera appare adeguata alla complessità dell’attività gestita e prevede una chiara distinzione tra funzione di indirizzo e di gestione, un definito sistema di deleghe e di responsabilità, un completo modello organizzativo.

Costituisce, poi, una peculiarità l’apporto essenziale di laici competenti e dotati di elevata professionalità in qualità non di semplici collaboratori ed esecutori, ma di effettivi corresponsabili dell’opera: questa impostazione riflette una scelta consapevolmente compiuta dall’istituto religioso, che dimostra di aver compreso sia le sue reali capacità e la mancanza di risorse umane competenti al proprio interno, sia l’ambito (quello carismatico) nel quale il proprio apporto rimane essenziale, sia le migliori modalità di una effettiva corresponsabilità con laici professionalmente competenti.

La soluzione adottata nel Regno Unito potrebbe trovare generale applicazione per gli enti ecclesiastici, offrendo risposta positiva ai limiti che la consueta gestione delle opere pone.

Una sua traduzione convincente nell’ordinamento italiano potrebbe essere costituita dalla fondazione, che ha nella intangibilità dello scopo (e cioè nella garanzia del carisma) uno degli elementi caratterizzanti.

Concretamente, una particolare specie di fondazione, la fondazione di partecipazione, si è dimostrata molto adatta non soltanto per gestire direttamente opere, ma anche per coinvolgere soggetti terzi nel raggiungimento delle proprie finalità e per costituire tra i partecipanti – che pure mantengono la propria autonomia – una virtuosa rete in vista del raggiungimento di obbiettivi comuni ritenuti strategici secondo un piano pluriennale condiviso.

Lo strumento è stato di recente utilizzato per le realtà educative (collegi) di una congregazione religiosa che ha inteso promuovere un’azione coordinata di tutte le proprie istituzioni educative sul territorio italiano.

La missione assegnata alla fondazione di partecipazione è salvaguardare nel tempo e sviluppare in modo creativo l’identità, le risorse umane e il patrimonio materiale delle istituzioni educative, facendosi garante del loro rinnovamento e della loro sempre maggiore qualificazione, in uno stile di crescente corresponsabilità tra religiosi e laici.

Nella definizione della governance è stata assicurata la nomina della maggioranza del consiglio di amministrazione da parte del Superiore Maggiore, mentre gli altri membri sono scelti  dai primi nominati tra nominativi proposti dai partecipanti;  l’organo di controllo, poi,  è nominato dal Superiore Maggiore, appunto un soggetto esterno.

La valorizzazione della diversità tra i partecipanti è assicurata nello specifico dal regolamento, che prevede non soltanto gli obblighi delle istituzioni educative partecipanti, ma anche le modalità della loro partecipazione attiva dei ai processi di funzionamento della fondazione.

In definitiva l’affidamento della gestione di attività complesse a un ente istituito ad hoc dimostra come sia più agevole risolvere con rigore e competenza questioni che l’ente ecclesiastico da parte sua non è del tutto adeguato ad affrontare.

La riforma del Terzo Settore in Italia, che dovrebbe in tempi rapidi iniziare il suo iter parlamentare, potrebbe offrire ulteriori opportunità di strutturazione efficace e coerente delle modalità di realizzazione della missione degli enti ecclesiastici in attività complesse.

 

  • Una rinnovata audacia per scelte innovative e profetiche

Le sfide che gli enti ecclesiastici devono affrontare nel contesto odierno sono particolarmente complesse e richiedono un approfondito ripensamento, alla luce del carisma specifico, della natura dei beni di cui sono datati, delle modalità della loro gestione e dell’adeguatezza della loro governance.

Soltanto scelte innovative e profetiche consentiranno agli enti ecclesiastici di essere realmente a servizio della missione nella Chiesa e dell’intera società, facendo trasparire la testimonianza evangelica[16]; diversamente le loro opere non sarebbero significative e anzi potrebbero esser di ostacolo, distogliendoli dal proprio compito istituzionale di annunzio della Buona Notizia, rivelandosi addirittura un inutile fardello.

La “collaborazione nel cuore della missione”[17] e la corresponsabilità con laici dotati di competenza professionale elevata e consapevoli sia del carisma dell’ente ecclesiastico sia dei vincoli che questo pone alle scelte di gestione dei beni, sono risorse essenziali per mantenere efficacia ed efficienza nel compimento della missione assegnata agli enti ecclesiastici.

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[1] FRANCESCO, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, 33.

[2]Codice di Diritto Canonico, can. 578.

[3] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Vita Consecrata, 36.

[4] Cfr. J. B. METZ, Tempo degli Ordini?, 1977, 18-22

[5] Cfr. FRANCESCO, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, 50.

[6] Cfr. CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETA’ DI VITA APOSTOLICA, Lettera Circolare Linee orientative per la gestione di beni negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica, 8.

[7]Codice di Diritto Canonico, can. 1257 § 1.

[8] Cfr. Codice di Diritto Canonico, can. 1285.

[9] Cfr. Codice di Diritto Canonico, can. 1291.

[10] Cfr. CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETA’ DI VITA APOSTOLICA, Lettera Circolare Linee orientative per la gestione di beni negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica, 16.

[11]Codice di Diritto Canonico, can. 1273.

[12]Codice di Diritto Canonico, can. 1280.

[13]Cfr. art. 19 L. 222/1985 ed art. 15 D.P.R. 33/1987.

[14] Cfr. COMPAGNIA DI GESU’, Istruzione sull’amministrazione dei beni, 164-166.

[15] Cfr. CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETA’ DI VITA APOSTOLICA, Lettera Circolare Linee orientative per la gestione di beni negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica, 13.

[16] Cfr. CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETA’ DI VITA APOSTOLICA, Lettera Circolare Linee orientative per la gestione di beni negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica, 6.

[17] Cfr. XXXV CONGREGAZIONE GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESU’, Decreto VI, La collaborazione nel cuore della missione.

 

 

[il presente contributo è apparso in F. Lozupone (a cura di), Corresponsabilità e trasparenza nell’amministrazione dei beni della Chiesa, 2015, Aracne Editrice]

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